Giovanni è accasciato sulla sedia di fronte a me nell’infermeria della Comunità.
Quasi rannicchiato non sembra neppure così alto come di fatto è; il pallore, invece, è quello di sempre.
I radi capelli, incollati da un sudore malaticcio alla fronte, fanno da cornice a due occhi tanto tristi da far male quando li guardi.
Giovanni ha appena aggredito, alla sua maniera, un altro ospite ed ora è qui per sentirsi dire, da me, che dovrà tornarsene in OPG, a Reggio Emilia, da dove è arrivato solo quindici giorni fa.“Sono già quindici giorni che sono uscito, dottore?” – per un attimo quegli occhi conoscono un riflesso di quasi gioia. Li abbassa. Quando li rialza lo fa per insegnarmi qualcosa: “Ringrazi tutti i giorni il Signore che lei ha la salute, dottore…”
Giovanni è giunto in Comunità accompagnato da una fama sinistra: da sedici anni vive rinchiuso in Manicomio Criminale (oggi si chiama Ospedale Psichiatrico Giudiziario, ma il vecchio nome rende di più l’idea…), in una cella da solo e sovente legato.Eccolo il MOSTRO. Ecco il nostro Hannibal Lecter.
Ecco l’incarnazione perfetta di ogni nostra paura. Eppure Giovanni ha semplicemente dato uno schiaffo ad un passante e colpito con un ombrello uno psichiatra durante un colloquio: sono sedici anni che vive recluso per quei reati! Per sua sfortuna, Giovanni, fu riconosciuto non colpevole per infermità mentale, e quindi incapace di intendere e di volere. Se fosse stato condannato non avrebbe fatto neppure un giorno di carcere, adesso invece è in dubbio se mai uscirà dalle mura dell’OPG. Questo paradosso si spiega, giuridicamente, con il concetto di “pericolosità sociale”: chi viene assolto per infermità mentale deve essere rinchiuso in OPG come “misura di sicurezza”, fino a che un professionista della sanità mentale non dichiarerà che non esiste più il pericolo che possa tornare a danneggiare il suo prossimo.
Già il linguaggio usato dalla scienza giuridica ci rivela come questa assurda ingiustizia nasconda (ma al contempo riveli) il controverso rapporto che la Società intrattiene con le proprie paure. Si parla di pericolosità e poi di sicurezza: non sono forse le stesse parole che quotidianamente vengono riversata dai Media nelle nostre vite? La gente vuole sicurezza, vuole esorcizzare ogni possibile pericolo, la vita va bonificata da ogni minaccia…
Però come si fa quando è un barista insieme al figlio che uccide a sprangate un avventore, quando sono i tifosi di una squadra che devastano tutto e si armano per uccidere, quando è una madre ad uccidere il proprio figlio, quando sono i vicini di casa a fare una strage, quando sono i padri di famiglia ad alimentare la prostituzione nelle strade e nelle case, quando sono i tutori dell’ordine a diventare violenti, quando sono i ragazzini che umiliano e minacciano i propri coetanei?
La storia di Giovanni ci rivela che il problema vero non è la pericolosità dell’altro, ma la nostra paura. Lui è infinitamente meno pericoloso socialmente di chi inquina il nostro mondo, di chi specula in Borsa sulla pelle della gente, o di chi manipola l’informazione: però lui fa molta più paura e allora deve restare là dentro. Vedere negli occhi buoni e disperati di Giovanni il dramma della sua vita senza scampo mi fa dire che è tempo di confrontarci finalmente con le nostre parti oscure, quelle che ci terrorizzano e che ci siamo illusi di poter occultare e mettere a tacere. La caccia al Mostro, a cui stiamo assistendo in tutto il mondo occidentale, sembra essere l’ennesimo tentativo di proiettare il Male al di fuori di noi stessi e negarlo ancora una volta. Il Dio degli Ebrei, per bocca di Isaia, promette un mondo nuovo in cui il lupo a l’agnello potranno pascolare insieme: Giovanni, intanto, chiede di poter vivere accanto a noi, con le sue stranezze e le sue diversità.
Con lui sento che parlano gli immigrati, i Rom, gli ex carcerati ed ogni “diverso” che soffra la maledizione della paura che suscita negli altri: in cambio promettono di aiutarci ad incontrare i mostri che vivono in ognuno di noi e di insegnarci come si fa a convivere con loro.