“È emerso così che il metodo di cui l’analista si serve non sta nell’operare un processo di trasformazione sul modo di relazionarsi del paziente, confrontandolo al proprio, e non sta neppure in un processo di trasformazione che l’analista compie su se stesso, precedendo il paziente, ma sta nel trasformarsi di entrambi entro la dialettica tra due modalità di rapportarsi, dialettica che fonda appunto il rapporto analitico.”
(Silvia Montefoschi, “L’uno e l’altro” – 1977)
Quando una persona mi chiede “cos’è la psicoterapia?”, con lo sguardo accarezzo gli scaffali della libreria che mi sta di fronte e ripenso alle tante teorie che sono nate negli studi psicoterapeutici e che hanno tentato di dare un senso coerente ai fenomeni osservati nell’incontro con l’altro, contemporaneamente però il mio pensiero va all’esperienza vissuta di quegli stessi incontri.
Fin dalla sua nascita la psicoanalisi ha mostrato una grande difficoltà a coniugare pratica clinica e riflessione teorica: gli storici di questa disciplina hanno evidenziato come già in Freud vi fosse una spaccatura importante fra le sue affermazioni teoriche ed il modo concreto in cui gestiva gli incontri con i suoi pazienti.
Neppure risponde a quella domanda la descrizione del cosiddetto “setting”. Questo ultimo indica l’insieme delle regole e degli elementi che definiranno l’incontro con lo psicoteraputa: luogo dell’incontro, orario, durata, frequenza, costo e modalità di pagamento, gestione dei rapporti extra seduta, ecc... Se la teoria può essere paragonata alla riflessione critica circa un opera pittorica, il setting possiamo considerarlo alla stregua della cornice: né l’una né l’altra sanno darci un’idea concreta del quadro; entrambe orientano la nostra fruizione dell’opera d’arte, ma non ci esimono dall’incontro diretto con il dipinto.
La mia esperienza vissuta durante le sedute, come ogni esperienza, è incomunicabile e non ha quel carattere di oggettività che mi permette di proporla ad altri con la fondata speranza che continui ad avere senso. Bisognerà allora rassegnarsi all’impossibilità di dare una risposta alla domanda che ci interroga? Dovremo chiuderci nei nostri studi come nel laboratorio di un moderno alchimista, pronti a difendere la segretezza di un percorso che non può essere rivelato ai profani? Io voglio pensare che esista invece il modo per tentare una risposta a quella domanda: una risposta che stia al di qua delle varie teorizzazioni e che mantenga il suo senso al di là dei diversi settings. Se l’opera pittorica si manifesta con forme e colori, qualunque psicoterapia sarà connotata dall’incontro fra persone e dal dialogo che ne nasce.
Ciò che mi propongo di fare è di considerare la domanda che l’altro mi pone come strumento ed occasione per trasformare l’esperienza personale in un’opportunità di dialogo e quindi di conoscenza. Nelle varie sezioni del Sito, vorrei dar voce ad un dialogo con le persone che in vario modo mi hanno posto quella stessa domanda e provare, insieme, a far emergere una risposta, sicuramente non definitiva e dirimente, ma sempre curiosa di nuove ricerche, di nuove interpretazioni.
Gadamer, un grande pensatore del 900 che si è occupato proprio di interpretazione (o “ermeneutica” come dicono i filosofi), sostiene che l’interpretazione è di fatto l’attività che caratterizza il modo di esistere dell’essere umano. Noi umani dobbiamo continuamente cercare di comprendere il mondo intorno a noi e gli altri umani: non c’è nulla di spontaneo o naturale per l’Uomo, come può esserlo l’istinto per gli animali. Questo atto del comprendere è un processo infinito in cui bisogna sempre tenere presenti l’orizzonte in cui si muove chi vuole comprendere e l’orizzonte proprio di ciò che si tenta di comprendere. Il risultato di questo processo sarà la “fusione degli orizzonti”, ci dice Gadamer. Questa bella immagine della “fusione degli orizzonti” mi sembra proprio adatta per parlare del processo psicoterapeutico, che è senza dubbio un atto ermeneutico, cioè un tentativo profondo di comprendersi fra esseri umani, trovando una traduzione possibile dei diversi linguaggi ed una interpretazione comune della vita che si va a condividere. Quando l’orizzonte che vede lo psicoterapeuta intorno a sé si fonde con l’orizzonte che vede il paziente ed insieme possono contemplare un orizzonte più vasto, dove trovano senso le differenze che prima creavano ostacolo e conflitto, in quel momento si sta realizzando un dialogo autentico tra esseri umani, che io qui propongo come l’essenza dell’esperienza psicoterapeutica.
Dicendo questo ho anticipato le conclusioni di questa ricerca? No. Ho così solo dichiarato i miei “pre-giudizi” sulla psicoterapia.
Sempre Gadamer ci conduce a liberarci dal nostro pregiudizio rispetto ai pregiudizi! Siamo tutti abbastanza convinti che i pregiudizi siano una sorta di incrostazione della nostra mente, che ci impedisce di guardare al nuovo con uno sguardo puro. Ma questo è proprio il principale dei pregiudizi. In realtà all’essere umano non è concesso di guardare ad un’esperienza nuova e diversa in modo autenticamente vergine. Secondo il nostro pensatore, che per questa riflessione si è appoggiato al pensiero del suo maestro Heidegger, il pregiudizio va reso consapevole e così trasformato nell’unico strumento efficace per approcciarci all’altro. Sono i miei pregiudizi che mi rendono distinto dal nuovo che vado ad esplorare. Tale distinzione è il terreno su cui si può giocare il processo di interpretazione e di comprensione che porterà ad una nuova conoscenza. Confrontando i miei pregiudizi con la concreta e distinta presenza dell’altro, potrò verificare quali di questi fossero fondati e quali no e, soprattutto, potrò cogliere il senso delle diversità tra me e l’altro. Esemplificando e, anche un po’ semplificando, se ho un’opinione negativa su una persona che vado ad incontrare, ma se mi mantengo aperto ad un incontro vero con tale persona, potrò verificare se tale antipatia aveva senso e, soprattutto, potrò comprendere cosa avesse alimentato la mia antipatia e quali aspetti dell’altro siano stati tali da suscitarla prima ancora di conoscerlo. Da un tale processo deriverà necessariamente un accrescimento della consapevolezza di entrambi e una possibilità molto più vasta di incontro.
Chiedersi “cos’è la psicoterapia?” quando ci si pone per la prima volta di fronte all’altro, non importa se stesi su di un lettino o se seduti su una poltrona, vuol dire interrogarsi sulla natura dell’esperienza a cui si sta dando vita. In quella domanda, solo apparentemente teorica, pulsa la forza di questo particolarissimo tipo di incontro, che sa trovare il coraggio di interrogarsi sul proprio senso. Quella domanda andrebbe ri-tradotta con “Cosa stiamo facendo qui io e te?” per sentirne tutta la forza provocatrice e, potenzialmente, trasformativa. Allora la stessa scabrosa domanda se la deve porre anche chi in quella stanza stava ad attendere, chi da anni si è preparato a quel incontro. Anche lo Psicoterapeuta deve chiedersi “Cos’è la psicoterapia?” – “Cosa stiamo facendo qui io e te?”; deve lasciarsi interpellare da queste domande, senza abbandonarsi mai alla tentazione di una risposta che provenga dai libri che ha letto o dai percorsi formativi che ha vissuto. Solo se ad ogni incontro queste domande troveranno lo spazio per risuonare e per inquietare, allora il dialogo con l’Anima potrà forse avvenire.
Da quanto fin qui asserito, risulta del tutto evidente che tra i miei pregiudizi circa la psicoterapia c’è soprattutto quello che essa non possa essere un processo scientifico e neppure un atto medico di cura.
Essa non può essere un processo scientifico, quando per scienza intendiamo quell’atto conoscitivo che pone l’oggetto studiato fuori dal soggetto per poterlo osservare, analizzare ed infine descrivere attraverso una teoria che lo spieghi. Il pensiero fenomenologico ha evidenziato come ci sia una sostanziale differenza tra lo Spiegare (Enklaren) ed il Comprendere (Verstehen). Lo Spiegare è proprio delle Scienze della Natura, che vogliono conoscere gli oggetti di questo mondo: è questo il processo che viene comunemente ritenuto “scientifico”. Il Comprendere appartiene alle Scienze dello Spirito, fra cui la Psicologia, che vogliono conoscere altri soggetti: questo è comunemente considerato un processo relazionale e non scientifico. Se la Psicologia, e tanto più la psicoterapia, vuole farsi scientifica allora sarà obbligata a trasformare il soggetto vivente che sta di fronte all’osservatore in un oggetto non più dotato di una sua intenzionalità. Per questo motivo tra i miei pregiudizi vi è la completa adesione alle affermazioni di Binswanger quando giudicò la separazione irriducibile fra Soggetto ed Oggetto come “Il cancro di ogni psicologia”.
Ed ora veniamo al modello medico di cura. La medicina occidentale moderna ha, in toto, fatto proprio il pensiero scientifico. Il corpo-oggetto viene ormai studiato in modi sofisticatissimi, gli specialisti si sono dedicati ad una dissezione dell’uomo sempre più esasperata fino ad avere ormai sottospecialità che si occupano di distretti limitatissimi del corpo umano, i farmaci sono in grado di agire sul piano molecolare e, nel prossimo futuro, lo sviluppo degli studi sul DNA e sulle Cellule Staminali permetterà di agire anche sul piano genetico. La complessità delle indagini diagnostiche e delle cure rende oggigiorno il paziente del tutto impotente a partecipare alla propria cura e pone il medico in grave difficoltà quando deve provare a spiegare i suoi atti per ottenere dal paziente il necessario consenso informato. Di fatto il paziente è costretto ad una delega totale che lo relega nella dimensione di “oggetto di cura”. Nel tempio di Esculapio, un Ospedale “ante litteram” i cui resti si possono ancora visitare in Turchia, esiste un ala chiamata “Incubatorium”. I pazienti venivano accolti inizialmente in quella stanze, dove potevano dormire ed “incubare” i propri sogni , che poi il medico avrebbe interpretato per fare diagnosi. La distanza fra i due modelli medici, quello moderno e quello antico, è evidentemente abissale: allora il paziente era protagonista centrale del processo di cura, oggi è oggetto passivo di cure. La psicoterapia non può attingere metodi e legittimazione dal modello medico moderno, pena lo smarrire la possibilità del paziente di fare un percorso, di agire un cambiamento. Se un corpo malato può essere guarito da un intervento medico esterno, un’anima sofferente deve ritrovare la propria disponibilità a vivere.
E allora qual è il senso ed il ruolo dello psicoterapeuta? Come già segnalato da J.Hillman, è l’etimologia della parola a venirci in aiuto. La parola PSICOTERAPEUTA deriva dalle due parole greche: - PSYCHE = Anima - THERAPEUO = Servitore Allora lo psicoterapeuta ci viene riconsegnato come chi si pone al servizio dell’anima: è colui che si dà disponibile a cercare e poi a nutrire il dialogo vitale con l’altro. Scopriamo così che la parola “Psicoterapeuta” mantiene in pieno il suo valore anche nell’ottica con cui stiamo affrontando il problema. Appare invece del tutto inadeguata la parola “Paziente” per indicare l’altro che di fronte allo psicoterapeuta si pone. L’etimologia della parola, infatti, ci porta al verbo latino PATI, che vuol dire “sopportare”, “patire” oppure “permettere”. È evidente che tale parola, oltre ad indicare la persona che soffre, sottolinea l’attitudine passiva di chi si sottomette all’agire altrui. Ma chi è passivo, sia di fronte alla propria sofferenza sia nel delegare la cura ad altri, non può porre domande né può animare un dialogo. Pertanto da qui in avanti abbandonerò questa parola, così gravata di preconcetti che non mi appartengono. Lo sforzo di trovare talvolta perifrasi faticose non è da intendersi come un puntiglioso ossequio alle premesse, ma come il tentativo di trovare parole nuove per esprimere idee nuove.
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In base a queste premesse voglio qui rimandare al sito www.fondazionesilviamontefoschi.it e al Manifesto che è pubblicato al suo interno, riconoscendomi pienamente in quella visione ed in quella esperienza in divenire.